CERTIFICATO CATASTALE E FALSA RAPPRESENTAZIONE DEI LUOGHI

planimetria immobile

Corte di Cassazione Sez. III n. 47666 del 16 dicembre 2022

Laddove non sia ipotizzabile altro scopo, non v’è dubbio che le dichiarazioni circa lo stato di fatto di beni immobili presentate all’Ufficio del catasto da un professionista iscritto all’albo che alleghi planimetrie riproducenti lo stato dei luoghi abbiano la funzione di implementare le informazioni poste nella disponibilità di quell’Ufficio e che, proprio per la particolare competenza e per i doveri di deontologia del professionista, siano destinate a provare la verità di quanto rappresentato, consentendo alla pubblica amministrazione di potervi fare affidamento per l’aggiornamento degli archivi e dei registri tenuti. Né vale richiamare, in contrario, il regime di prova dei certificati catastali, posto che, mentre non può dubitarsi della natura fidefacente di tali certificati rispetto alle informazioni e ai dati in possesso dell’ufficio che vengono documentalmente attestati, altro è il valore probatorio degli elementi in tal modo certificati, ciò che dipende, per un verso, dal tipo di questione che viene in rilievo e dalla relativa disciplina, per altro verso, dalla pur sempre deducibile non conformità del contenuto di tali atti all’effettiva realtà rappresentata.


RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 22 aprile 2021, la Corte d’appello di Genova, accogliendo parzialmente gli appelli degli imputati, li ha assolti da due capi di imputazione e, rideterminando conseguentemente la pena, ne ha confermato la penale responsabilità per i residui capi, concernenti: per entrambi gli imputati, i reati di cui all’art. 44, comma 1, lett. c), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (d’ora in avanti, T.U.E.) e 181, commi 1 e 1-bis, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 per aver realizzato, nel territorio paesaggisticamente vincolato dell’isola Palmaria, opere edilizie abusive in assenza o in difformità rispetto al permesso di costruire ed all’autorizzazione paesaggistica; per il solo Renzo Paglini anche tre ipotesi di falsità ideologica in certificato, ricondotte al reato di cui all’art. 481 cod. pen., per aver presentato all’Ufficio del catasto fabbricati di La Spezia, nella qualità professionale di ingegnere, tre dichiarazioni, con allegate planimetrie, che rappresentavano falsamente lo stato dei luoghi.
 
2. Avverso la sentenza, gli imputati hanno proposto ricorso per cassazione a mezzo dei rispettivi difensori, deducendo quattro motivi comuni in relazione ai reati per quali la condanna è stata ritenuta in concorso e deducendo il solo Renzo Paglini un ulteriore motivo con riguardo ai delitti di falso ideologico dei quali lui soltanto è stato ritenuto responsabile.

3. Con il primo motivo comune si lamenta il vizio di travisamento della prova e contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione con riguardo ai reati di cui ai capi A), F), G), H) e I) dell’imputazione. In particolare:
– in relazione ai reati urbanistico e paesaggistico contestati al capo A), si lamenta innanzitutto il travisamento della prova per essersi la condanna fondata, quanto al ritenuto aumento di cubatura dell’immobile ed alla modifica della sagoma, pressoché esclusivamente su prove inesistenti mai acquisite al processo, vale a dire su riproduzione fotografiche aeree dello stato dei luoghi di cui aveva soltanto riferito un testimone e che, contrariamente a quanto affermato dalla sentenza impugnata, non erano neppure state allegate ad annotazioni di polizia giudiziaria;
– con riguardo ai medesimi reati si lamenta inoltre la carenza e contraddittorietà della motivazione per aver la sentenza affermato che il manufatto aveva originariamente forma quadrata e contestualmente asserito che dalle ortofoto era possibile individuare una piccola pianta rettangolare e per aver ritenuto un aumento di cubatura superiore al 30% senza che fosse nota l’altezza dell’originario edificio; ci si duole, inoltre, dei diversi criteri utilizzati per vagliare le produzioni fotografiche allegate alla consulenza tecnica della difesa rispetto a quelli impiegati per valutare il materiale probatorio fornito dall’accusa;
– con riguardo ai reati urbanistici e paesaggistici contestati ai capi F) e G) si lamenta l’omessa considerazione delle argomentazioni svolte dal consulente tecnico della difesa arch. Evaristi, avendo la Corte territoriale sposato in toto le diverse valutazione del c.t. del pubblico ministero arch. Bianchi, e dei testimoni indicati dalla difesa, tutti assidui frequentatori dei luoghi;
– quanto agli analoghi reati contestati con riguardo ai manufatti di cui ai capi H) e I), questi ultimi di consistenza peraltro precaria, si lamenta l’omessa considerazione delle dichiarazioni rese dalla testimone Guso, neppure giudicata inattendibile, circa la presenza in loco degli stessi sin dal 2008, ciò che avrebbe dovuto condurre alla declaratoria di prescrizione dei reati, essendosi contraddittoriamente in contrario valorizzata la mancata rappresentazione degli stessi su quelle planimetrie redatte dall’imputato Renzo Paglini che la sentenza ha ritenuto ideologicamente false tanto da confermare la responsabilità del predetto per il reato di cui all’art. 481 cod. pen.

4. Con il secondo motivo comune si deduce violazione delle norme incriminatrici di cui all’art. 44 T.U.E. e 181 d.lgs. 42/2004 posto che:
– con riguardo al manufatto oggetto del capo A), già originariamente adibito ad uso misto, agricolo e residenziale, vi era stato un mero intervento di ristrutturazione edilizia su edificio preesistente a base rettangolare con aumento di cubatura contenuto nei limiti del 20%, sicché non era necessario il previo rilascio del permesso di costruire;
– quanto al manufatto di cui al capo G), la consulenza tecnica dell’arch. Evaristi aveva evidenziato come non vi fosse stato alcun incremento di cubatura rispetto al permesso di costruire rilasciato, ma solo un trascurabile incremento di superficie dovuto alla costruzione di muro perimetrale meno spesso di quello originario, sicché non sussisteva alcuna variazione essenziale o difformità;
– i manufatti oggetto di contestazione al capo I) erano invece precari, e pertanto non soggetti a permesso di costruire, mentre lo stradello di collegamento di due mappali era sempre esistito, come confermato dalle testimonianze;
– gli interventi effettuati sui manufatti di cui ai capi A) e F) non avevano determinato un aumento di cubatura superiore al 30% (o a 750 mc.) né una nuova costruzione di volumetria superiore a 1.000 mc. sicché era stata illegittimamente ritenuta l’ipotesi delittuosa di cui all’art. 181, comma 1-bis, d.lgs. 42 del 2004;
– con riguardo agli interventi contestati al capo G), essendo stata rilasciata l’autorizzazione paesaggistica, era stato illegittimamente ritenuto l’illecito contravvenzionale di cui all’art. 181, comma 1, d.lgs. 42 del 2004, non essendo ravvisabile alcuna difformità sul piano ambientale.

5. Con il terzo motivo comune si lamentano violazione degli artt. 157, 158, 161 cod. pen. e 531 cod. proc. pen. per non essere stata dichiarata la prescrizione dei reati contravvenzionali contestati ai capi H) e I), trattandosi di manufatti ultimati almeno nel 2008, come riferito dalla testimone Guso.

6. Con l’ultimo motivo comune si deducono violazione degli artt. 62 bis e 133 cod. pen., nonché vizio di motivazione, per non essere state riconosciute le richieste circostanze attenuanti generiche senza rendere alcuna motivazione e senza considerare i favorevoli elementi di valutazione indicati negli appelli.

7. Con il quarto motivo del ricorso proposto da Renzo Paglini si lamentano violazione dell’art. 481 cod. pen. e vizio di motivazione quanto all’affermata responsabilità per il falso ideologico contestato ai capi C), D), E) della rubrica. Si allega che – come riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità e, contraddittoriamente, pure dalla sentenza impugnata – le planimetrie catastali non hanno finalità probatoria e, pertanto, le attestazioni fornite al catasto dal professionista non sono destinate a provare la verità di quanto rappresentato e non possono dunque integrare il delitto ritenuto.

8. Con memoria difensiva successivamente depositata i difensori degli imputati hanno chiesto sollevarsi questione di legittimità costituzionale dell’art. 181, comma 1-bis, d.lgs 42/2004, così come riformulato a seguito della sentenza della sent. Corte cost. n. 56/2016 – reato nella specie ritenuto con riguardo alle contestazioni mosse ai capi A) e F) dell’imputazione – per violazione degli artt. 3 e 27 Cost., quantomeno nella parte in cui non prevede, per la configurabilità dell’illecito come delitto, che l’aumento volumetrico superiore al 30% sia altresì eccedente i 750 mc. Si argomenta che, anche successivamente alla menzionata decisione della Consulta, il trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 181 d.lgs. 42/2004 appare irragionevole e rischia di dare luogo ad applicazioni pratiche inique e prive di qualsiasi giustificazione razionale, come avvenuto nella specie, donde la rilevanza della questione.

CONSIDERATO IN DIRITTO
    
1. Il primo comune motivo di ricorso è in parte infondato e in parte inammissibile.
1.1. Con riguardo all’affermazione di responsabilità per i reati di cui al capo A), la sentenza reca motivazione completa e non illogica. La trasformazione del manufatto diruto a pianta quadrata di 36 mq., destinato ad uso agricolo, in un bilocale ad uso abitativo rettangolare con volumetria quasi raddoppiata e superficie di circa 58 mq. è stata adeguatamente argomentata sulla base non solo del confronto tra l’esistente al momento dell’accertamento e le fotografie aeree cui ha fatto riferimento il teste Maccione, ma anche di altri dati documentali (la descrizione del manufatto nel rogito notarile di acquisto del 1997 ed una planimetria catastatale del 1938).
La doglianza concernente la “inesistenza”, agli atti, delle fotografie visionate dal teste Maccione, del cui contenuto questi ha riferito nell’esame – e, conseguentemente, la inutilizzabilità del dato probatorio – è dunque infondata, posto che il convincimento del giudice non si è basato (in modo, comunque, non esclusivo, ciò che rivela anche la genericità del motivo) su una prova documentale inesistente, ma su una  prova dichiarativa, non illogicamente ritenuta attendibile ed in ogni caso qui non contestata, rispetto alla assai diversa conformazione e consistenza del manufatto quale rappresentato nelle fotografie che il teste aveva esaminato, risalenti a qualche anno prima rispetto alla data dell’accertamento. Contrariamente a quanto opinano i ricorrenti, le dichiarazioni rese sul punto dal teste sono certamente utilizzabili, indipendentemente dal fatto che le fotografie in questione fossero state allegate, o meno, ad annotazioni di p.g. presenti nel fascicolo del pubblico ministero (donde l’irrilevanza della doglianza di travisamento probatorio mossa sul punto). Ed invero, questa Corte ha già avuto modo di affermare – ed il principio va qui ribadito – che il contenuto rappresentativo di un documento può essere provato anche attraverso una testimonianza, e, in tal caso, il grado di minore affidabilità della prova dichiarativa non implica l’inutilizzabilità di quest’ultima (Sez. 5, n. 38767 del 28/06/2017, Gaglini e a., Rv. 271210).  
Quanto alle ulteriori specifiche contestazioni mosse dai ricorrenti in ordine ai reati in parola, il Collegio osserva quanto segue:
– che l’originario manufatto avesse pianta quadrata e sia stato trasformato in edificio a pianta rettangolare è chiaramente e ripetutamente affermato in sentenza (pagg. 8, 10, 11), sicché costituisce, all’evidenza, un “refuso” la ictu oculi contraddittoria asserzione fatta a pag. 9 e criticata in ricorso;
– dalla sentenza non risulta, ed i ricorrenti non solo non ne danno evidenza ma neppure muovono sul punto specifica contestazione, che con l’appello si fosse censurata la ritenuta altezza dell’edificio diruto quale ricostruita in primo grado, sicché la censura di vizio di motivazione sul punto è manifestamente infondata ed in ogni caso in questa sede inammissibile: richiamando consolidati principi affermati con riguardo alla causa di inammissibilità di cui all’art. 606, comma 3, ult. parte, cod. proc. pen., deve infatti ribadirsi che laddove si deduca con il ricorso per cassazione il mancato esame da parte del giudice di secondo grado di un motivo dedotto con l’atto d’appello, occorre procedere alla specifica contestazione del riepilogo dei motivi di gravame, contenuto nel provvedimento impugnato, che non menzioni la doglianza proposta in sede di impugnazione di merito, in quanto, in mancanza della predetta contestazione, il motivo deve ritenersi proposto per la prima volta in cassazione (Sez. 2, n. 31650 del 03/04/2017, Ciccarelli e a., Rv. 270627; Sez. 2, n. 9028/2014 del 05/11/2013, Carrieri, Rv. 259066);
– non sono stati utilizzati criteri differenti con riguardo alla valutazione delle prove documentali dell’accusa e della difesa, posto che il giudice di merito, con valutazione qui non sindacabile, ha attestato che le fotografie prodotte dalla difesa – a differenza di quelle visionate dalle polizia giudiziaria e di cui il teste ha riferito con dichiarazioni ritenute attendibili e delle altre documentalmente acquisite al processo – raffiguravano luoghi incerti ed era parimenti incerta l’epoca degli scatti.
1.2. Con riguardo ai reati urbanistici e paesaggistici contestati ai capi F) e G) le contestazioni mosse in ricorso sono inammissibili perché del tutto generiche e perché non si confrontano con l’articolata e non illogica motivazione spesa in sentenza, fondata sugli oggettivi accertamenti – non specificamente contestati – fatti dal consulente tecnico del pubblico ministero ed in alcun modo incrinati, attesta non illogicamente la sentenza, dalla testimonianza invocata dalla difesa. In ricorso si censura la pronuncia impugnata per l’omessa considerazione delle dichiarazioni rese da quattro testimoni e delle argomentazioni svolte dal consulente tecnico della difesa arch. Evaristi, ma il generico ricorso si limita a rinviare alla lettura delle deposizioni e dell’elaborato peritale, senza indicare specificamente in che modo le stesse sarebbero idonee a scardinare la ricostruzione operata in sentenza. Anche in tal caso, tuttavia – come  accade allorquando si faccia generico rinvio alle censure articolate con l’atto di gravame, senza indicarne il contenuto – non si consente alla Corte di individuare le questioni sulle quali si sollecita il sindacato di legittimità, dovendo l’atto di ricorso contenere, invece, la precisa prospettazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto da sottoporre a verifica (Sez. 3, n. 35964 del 04/11/2014, dep. 2015, B. e a., Rv. 264879 in senso conforme: Sez. 2, n. 13951 del 05/02/2014, Caruso, Rv. 259704; Sez. 2, n. 9029 del 05/11/2013, dep. 2014, Mirra, Rv. 258962).
1.3. Quanto agli analoghi reati contestati con riguardo ai manufatti di cui ai capi H) e I), la sentenza non è contraddittoria nel negare l’intervenuta prescrizione dei reati e le contestazioni mosse sono manifestamente infondate.
Ed invero, la sentenza non fonda l’inesistenza del manufatto nel 2008 sulla scorta delle dichiarazioni false contestate a Renzo Paglini, ma ad una diversa dichiarazione al catasto risalente al 2011, in cui il manufatto abusivo indicato al capo H non risultava e, quanto allo stradello, si attesta che lo stesso, da foto acquisite, risultava non presente, essendovi ancora i muri a secco, nel novembre 2013.

2. Le doglianze proposte con il secondo, comune, motivo di ricorso sono inammissibili per manifesta infondatezza, per genericità e perché proposte per ragioni non consentite, essendosi i ricorrenti limitati a riprodurre i motivi sollevati con l’appello, adeguatamente e correttamente vagliati dalla Corte territoriale, senza confrontarsi realmente con le argomentazioni spese in sentenza e sollecitando anche una diversa valutazione delle prove e ricostruzione del fatto.
Ed invero, va in primo luogo osservato che la genericità del ricorso ricorre non solo quando i motivi risultano intrinsecamente indeterminati, ma altresì quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato (Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013, Sammarco, Rv. 255568). In particolare, i motivi del ricorso per cassazione – che non possono risolversi nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla corte di merito – si devono considerare non specifici, ma soltanto apparenti, quando omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Arnone e aa., Rv. 243838), sicché è inammissibile il ricorso per cassazione quando manchi l’indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’atto d’impugnazione, atteso che quest’ultimo non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato (Sez. 2, n. 11951 del 29/01/2014, Lavorato, Rv. 259425).
Alla Corte di cassazione, poi, sono precluse la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez.  1, n. 42369 del 16/11/2006, De Vita, Rv. 235507), così come non è sindacabile in sede di legittimità, salvo il controllo sulla congruità e logicità della motivazione, la valutazione del giudice di merito, cui spetta il giudizio sulla rilevanza e attendibilità delle fonti di prova, circa contrasti testimoniali o la scelta tra divergenti versioni e interpretazioni dei fatti (Sez.  5, n. 51604 del 19/09/2017, D’Ippedico e a., Rv. 271623; Sez.  2, n. 20806 del 05/05/2011, Tosto, Rv. 250362).
2.1. In particolare:
– la sentenza, con ricostruzione del fatto qui non sindacabile e motivazione non manifestamente illogica, esclude che l’intervento di cui al capo A) fosse una ristrutturazione edilizia con aumento di cubatura contenuto nei limiti del 20% – avendo il consulente tecnico del pubblico ministero convincentemente calcolato l’aumento di cubatura in misura notevolmente superiore (94,5%) – e argomenta il mutamento di destinazione d’uso da agricolo a residenziale, con conseguente necessità del permesso di costruire, ex art. 10, comma 1, lett. c), T.U.E. e di autorizzazione paesaggistica, trattandosi di ristrutturazione edilizia c.d. “pesante” che, in zona vincolata, ha determinato la trasformazione di un piccolo manufatto agricolo diruto in un ben più ampio e voluminoso bilocale ad uso residenziale;
– lo stesso vale quanto ai lavori in variazione essenziale contestati al capo G), rispetto ai quali le generiche doglianze dei ricorsi richiamano (del pari genericamente) le affermazioni del consulente tecnico di parte senza confrontarsi con la diversa ricostruzione del fatto, qui  non sindacabile, fatta dalla sentenza, che dà conto anche delle modificazioni non autorizzate realizzate all’esterno del manufatto (sulle quali i ricorsi tacciono), omettendosi peraltro di considerare, in diritto, che: in presenza di interventi edilizi in zona paesaggisticamente vincolata, ai fini della loro qualificazione giuridica e dell’individuazione della sanzione penale applicabile, è indifferente la distinzione tra interventi eseguiti in difformità totale o parziale ovvero in variazione essenziale, in quanto l’art. 32, comma 3, T.U.E. prevede espressamente che tutti gli interventi realizzati in zona sottoposta a vincolo paesaggistico eseguiti in difformità dal titolo abilitativo, inclusi quelli eseguiti in parziale difformità, si considerano come variazioni essenziali e, quindi, quali difformità totali (Sez. 3, n. 37169 del 06/05/2014, Longo, Rv. 260181); il reato di cui all’art. 181 del d.lgs. n. 42 del 2004, giusta la chiara formulazione del precetto contenuta nel primo comma della disposizione, si configura rispetto a lavori di qualsiasi genere eseguiti sui beni muniti di tutela paesaggistica, in assenza della prescritta autorizzazione o in difformità da essa, senza che assuma rilievo la distinzione tra le ipotesi di difformità parziale e totale rilevante invece nella disciplina urbanistica (cfr. Sez.  3, n. 3655 del 17/12/2013, dep. 2014, Alimonti, Rv. 258491; Sez.  6, n. 19733 del 03/04/2006, Petrucelli, Rv. 234730);
– è del tutto generica la allegazione di precarietà dei manufatti oggetto di contestazione al capo I) – non illogicamente disattesa dalla Corte territoriale anche sul rilievo che gli stessi erano ancora presenti in loco al momento dell’accertamento – come pure la asserita preesistenza dello stradello, che la sentenza smentisce con un dato documentale con cui i ricorrenti non si confrontano;
– parimenti fattuali, manifestamente infondate e comunque inammissibili sono le contestazioni circa l’insufficiente aumento di cubatura dei manufatti di cui ai capi A) e F) per integrare il contestato delitto di cui all’art. 181, comma 1-bis, d.lgs. 42/2004; del primo si è detto supra (§. 1.1.), mentre con riguardo al secondo i ricorrenti non contestano specificamente in questa sede l’incremento volumetrico (superiore al 30%) accertato dai giudici di merito, allegando invece che, essendosi trattato di un preesistente edificio demolito e ricostruito, l’intervento dovrebbe qualificarsi come nuova costruzione, con la conseguenza che non sussisterebbe il contestato delitto di cui all’art. 181, comma 1-bis, d.lgs. 42/2004, posto che l’edificio non supera i 1.000 mc.; la doglianza, tuttavia, è in primo luogo inammissibile per la preclusione di cui all’art. 606, comma 3, ult. parte, cod. proc. pen., trattandosi di violazione di legge – e connesso vizio di mancanza di motivazione – non dedotta nei motivi d’appello, stando alla non contestata ricostruzione degli stessi effettuata nella sentenza impugnata (cfr. quanto osservato supra, sub § 1.1.) ed in secondo luogo manifestamente infondata, posto che nel caso di specie erano stati ottenuti permesso di costruire e autorizzazione paesaggistica per un intervento di ristrutturazione edilizia di preesistente fabbricato e, al di là delle modalità esecutive attuate (la demolizione dell’esistente), la contestazione mossa è stata quella di esecuzione dei lavori in totale difformità rispetto a quanto autorizzato con riguardo alla originaria costruzione, sicché non v’è dubbio che, sul piano paesaggistico, ricorra l’ipotesi delittuosa prevista dall’art. 181, comma 1-bis, d.lgs. 42/2004;
– del tutto generica e manifestamente infondata, da ultimo, è la doglianza circa la inesistenza di “alcuna difformità sul piano ambientale” con riguardo alle difformità contestate al capo G): come più sopra osservato, la sentenza, con accertamento in fatto qui insindacabile, reputa sussistenti le difformità indicate in imputazione anche con riguardo ai lavori effettuati all’esterno del corpo di fabbrica principale per il quale erano state richieste e ottenute le autorizzazioni  e le stesse hanno certamente rilievo anche sul piano paesaggistico, integrando la contestata contravvenzione.

3. Il terzo motivo comune è parimenti inammissibile, avendo la sentenza non illogicamente escluso – come già osservato supra, sub §. 1.3 – l’attendibilità  di quanto dichiarato dalla teste Guso in contrasto con dati documentali e, conseguentemente, l’intervenuta prescrizione.

4. Il quarto motivo del ricorso proposto da Renzo Paglini è generico e manifestamente infondato.
Generico perché il ricorrente non precisa la disciplina normativa in base alle quale egli ebbe a presentare al catasto le dichiarazioni con le allegate planimetrie, sì da consentire a questa Corte di verificare che queste non fossero destinate a provare la verità di quanto rappresentato ma avessero un’altra – neppure si dice quale – finalità.
Comunque manifestamente infondato, poiché, laddove non sia ipotizzabile altro scopo (nella specie, come detto, neppure allegato), non v’è dubbio che le dichiarazioni circa lo stato di fatto di beni immobili presentate all’Ufficio del catasto da un professionista iscritto all’albo che alleghi planimetrie riproducenti lo stato dei luoghi abbiano la funzione di implementare le informazioni poste nella disponibilità di quell’Ufficio e che, proprio per la particolare competenza e per i doveri di deontologia del professionista, siano destinate a provare la verità di quanto rappresentato, consentendo alla pubblica amministrazione di potervi fare affidamento per l’aggiornamento degli archivi e dei registri tenuti (per un caso analogo, concernente la relazione tecnica del professionista allegata alla domanda di rilascio del permesso di costruire in sanatoria, cfr. Sez. F, n. 39699 del 02/08/2018, Orlando e aa., Rv. 273811; v. anche: Sez. 3, n. 15228 del 31/01/2017, Cucino, Rv. 269579; Sez. 3, n. 29251 del 05/05/2017, Vigliar e a., Rv. 270433). Né vale richiamare, in contrario, il regime di prova dei certificati catastali, posto che, mentre non può dubitarsi della natura fidefacente di tali certificati rispetto alle informazioni e ai dati in possesso dell’ufficio che vengono documentalmente attestati, altro è il valore probatorio degli elementi in tal modo certificati, ciò che dipende, per un verso, dal tipo di questione che viene in rilievo e dalla relativa disciplina (nessun dubbio, ad es., che i certificati catastali non valgano ad attestare la proprietà dei beni immobili: cfr. Cass. civ., Sez. 2, n. 5257 del 04/03/2011, Rv. 616806), per altro verso, dalla pur sempre deducibile non conformità del contenuto di tali atti all’effettiva realtà rappresentata.

5. Quanto alla questione di legittimità costituzionale proposta con la memoria contenente motivi aggiunti, la stessa, pur rilevante, è manifestamente infondata.
5.1. Si lamenta che, con riguardo ai capi A) e F), gli imputati sono stati ritenuti responsabili del delitto di cui all’art. 181, comma 1-bis, d.lgs. 42/2004 per avere realizzato ampliamenti di preesistenti manufatti, entrambi contenuti in meno di 100 mc., che, pur superiori al 30% dell’originaria volumetria, incidono in maniera poco significativa sul bene tutelato, mentre la realizzazione, nel medesimo territorio, di un manufatto ex novo con volume decisamente superiore, se contenuto entro i mille metri cubi, sarebbe sussumibile nel reato contravvenzionale di cui al comma 1 della disposizione incriminatrice, pur trattandosi di condotta evidentemente dotata di una capacità offensiva per il bene giuridico enormemente maggiore rispetto a quelle sub iudice. Parimenti irragionevole, nei medesimi casi, sarebbe l’applicazione della più grave sanzione prevista per l’ipotesi delittuosa per un ampliamento superiore al 30% in difformità dall’autorizzazione ottenuta rispetto all’assoggettamento alla meno grave sanzione prevista dalla contravvenzione di chi, in assenza di autorizzazione, realizzi un nuovo manufatto con volumetria notevolmente superiore rispetto alla prima, se contenuta nei mille metri cubi.
5.2. Come si accennava, la questione è rilevante perché gli imputati sono stati effettivamente condannati per il delitto di cui all’art. 181, comma 1-bis, d.lgs. 42/2004 in relazione a lavori effettuati su manufatti ubicati in zone paesaggisticamente vincolate che hanno determinato un aumento di volumetria superiore al trenta per cento di quella originaria e pur tuttavia in assoluto contenuta, considerata l’esigua dimensione degli stessi, vale a dire:
    • un aumento di 94,40 mc., pari al 94,5% per cento dell’originaria cubatura del manufatto, 99,90 mc. sviluppati su 36 mq. (capo A);
    • un aumento di 26,02 mc., pari al 56% del volume originario di 46,32 mc. (capo F).
5.3. Reputa il Collegio che – anche sulla scorta di precedenti di questa Corte con cui i ricorrenti non si confrontano – la questione sia tuttavia manifestamente infondata.
Con la citata sent. n. 56/2016, con cui si è dichiarata la parziale illegittimità costituzionale della disposizione incriminatrice in parola, la Corte costituzionale ha richiamato il principio giusta il quale «la discrezionalità di cui gode il legislatore nel delineare il sistema sanzionatorio penale trova il limite della manifesta irragionevolezza e dell’arbitrio, come avviene a fronte di sperequazioni tra fattispecie omogenee non sorrette da alcuna ragionevole giustificazione (sentenze n. 81 del 2014, n. 68 del 2012, n. 161 del 2009, n. 324 del 2008 e n. 394 del 2006)».
Nel caso di specie tali situazioni non sono ravvisabili, come questa Corte ha già avuto modo di sottolineare nella recente decisione con cui, in una vicenda similare, si è ritenuta la manifesta infondatezza di analoga questione di legittimità costituzionale (cfr. Sez. 3, n. 40513 del 17/05/2019, Carafa D’Andria, Rv. 277163). In questa pronuncia si è infatti argomentato che «il legislatore, nell’esercizio  della sua discrezionalità, ha ritenuto di punire come delitto, non solo tutte le condotte che provocano un ampliamento della volumetria preesistente superiore al 30%, ma anche quelle che, a prescindere dal dato percentuale, comportano la realizzazione in aumento di una cubatura superiore a 750 mc. la nuova realizzazione di una cubatura superiore a 1000 mc. Nell’ambito di tale sistema, la regola è rappresentata dalla disposizione che fa riferimento al dato percentuale, cui si aggiungono le altre disposizioni, dettate, evidentemente, allo scopo di evitare che, mantenendosi al di sotto della percentuale consentita, si realizzino in edifici molto grandi aumenti di volumetria molto rilevanti o si realizzino ex novo interventi edilizi anch’essi molto rilevanti. Tali ultime disposizioni non possono dunque essere prese quali tertia comparationis in un giudizio di ragionevolezza della prima, perché sono dettate dalla necessità di stabilire un ulteriore tetto, applicabile al di fuori del caso in cui gli aumenti di volume siano superiori al 30%».

    6. Fondata, invece, è la doglianza concernente l’omessa disamina del motivo di gravame con cui gli imputati avevano richiesto le circostanze attenuanti generiche.
    I ricorrenti hanno specificamente contestato di aver effettuato la motivata richiesta di dette circostanze negli atti di appello, adducendo positivi elementi di valutazione, senza che la Corte territoriale abbia esaminato la doglianza, di cui neppure viene dato conto in sentenza. Accedendo doverosamente agli atti di gravame, il Collegio ha verificato che l’allegazione è fondata e così pure, conseguentemente, il motivo di ricorso.
Ed invero, la sentenza impugnata nulla dice al proposito e non offre nemmeno spunti per ritenere che sia stata effettuata un’implicita valutazione di segno negativo, posto che, nella rideterminazione della pena conseguente all’assoluzione da due capi d’imputazione, la Corte territoriale ha applicato la pena minima edittale prevista per il più grave reato di cui all’art. 181, comma 1-bis, d.lgs. 42/2004, con contenuti aumenti a titolo di continuazione per gli altri reati, concedendo ad entrambi gli imputati i doppi benefici di legge. Non può dunque richiamarsi il principio secondo cui la richiesta di concessione delle circostanze attenuanti generiche deve ritenersi disattesa con motivazione implicita allorché sia adeguatamente motivato il rigetto della richiesta di attenuazione del trattamento sanzionatorio, fondata su analogo ordine di motivi (Sez.  1, n. 12624 del 12/02/2019, Dulan, Rv. 275057). Del resto, come si è detto, nel caso di specie la richiesta non era generica, sicché si sarebbero comunque dovuti prendere in esame gli elementi specificatamente indicati nei motivi di impugnazione (Sez.  6, n. 20023 del 30/01/2014, Gligora e aa., Rv. 2597629).
La sentenza deve pertanto essere annullata sul punto, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Genova.
    
    7. Trattandosi di motivo fondato comune a tutti i reati – e considerando anche che taluni degli altri motivi proposti non erano inammissibili – il rapporto processuale di legittimità deve considerarsi validamente costituito, sicché deve rilevarsi l’intervenuta prescrizione delle contravvenzioni urbanistiche contestate ai capi A) ed F), dei delitti di falso ideologico di cui ai capi C), D), E) e delle contravvenzioni contestate ai capi  G), H), I), con conseguente annullamento senza rinvio, sul punto, della sentenza impugnata. Trattandosi, di fatti, di contravvenzioni commesse sino al 27 ottobre 2016 (capo I) e di delitti commessi sino al 12 aprile 2013 (capo C), pur computandosi complessive cause di sospensione dovute a rinvii disposti nel processo per 242 giorni (come attestato a pag. 15 della sentenza, con calcolo non contestato dai ricorrenti), tutti i suddetti reati si sono estinti per prescrizione, al più tardi, entro il 26 giugno 2022.
Non sono invece ancora prescritti i delitti di cui all’art. 181, comma 1-bis, d.lgs. 42/2004 contestati ai capi A) ed F), posto che la sentenza attesta che i lavori sono proseguiti sino a data prossima a quella dell’accertamento dell’11 aprile 2016.
Con riguardo a tali residui reato il giudice del rinvio procederà dunque, in ogni caso, alla rideterminazione del trattamento sanzionatorio.
I ricorsi, complessivamente infondati per quanto sopra osservato, vanno nel resto rigettati.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui all’art. 44 d.P.R. n. 380/2001, contestato ai capi A ed F, nonché relativamente ai reati di cui ai capi C, D, E, G, H, I, perché estinti per prescrizione e rinvia ad altra sezione della Corte di appello di Genova per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio e la applicabilità delle circostanze attenuanti generiche.
Rigetta i ricorsi nel resto.
Così deciso il 14 luglio 2022.

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