REATI EDILIZI, INTERVENTI DI MANUTENZIONE ORDINARIA SU IMMOBILI ABUSIVI

manutenzione ordinaria

La Corte di Cassazione ribadisce i principi in tema di interventi su costruzioni abusive, riaffermando che anche la manutenzione ordinaria costituisce un illecito se effettuata sull’opera irregolare non sanata.

La Corte di Cassazione Penale con la Sentenza del 03/05/2023, n. 18268 si è pronunciata nell’ambito di una fattispecie in cui si trattava di accertare la prosecuzione nel tempo di opere abusive.

In proposito la Corte ha ribadito che non possono ritenersi lecite, ancorché non richiedenti astrattamente autorizzazione o fornite di un formale titolo autorizzatorio, le opere che, seppur autonomamente e astrattamente qualificabili come interventi privi di rilevanza penale, siano realizzate in prosecuzione di precedenti illeciti edilizi mai previamente sanati o condonati.
Ed infatti qualsiasi intervento effettuato su una costruzione realizzata abusivamente, ancorché l’abuso non sia stato represso, costituisce una ripresa dell’attività criminosa originaria, che integra un nuovo reato, anche se consista in un intervento di manutenzione ordinaria, perché anche tale categoria di interventi edilizi presuppone che l’edificio sul quale si interviene sia stato costruito legittimamente (v. C. Cass. pen. 26/11/2019, n. 48026).

INAPPLICABILITÀ DEL REGIME DELLA CILA O DELLA SCIA – La giurisprudenza ha chiarito inoltre che il regime della comunicazione di inizio lavori asseverata (CILA) non è applicabile alle opere da eseguirsi su manufatti il cui originario carattere abusivo sia stato accertato con sentenza definitiva e che non risultino essere stati oggetto di condono edilizio o di accertamento di conformità, poiché gli interventi ulteriori su immobili abusivi ripetono le caratteristiche di illegittimità dal manufatto principale, al quale ineriscono strutturalmente (v. C. Cass. pen. 24/09/2018, n. 41105).
Il principio si applica anche con riguardo a interventi ricondotti astrattamente al regime della segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) (v. C. Cass. pen. 11/12/2014, n. 51427; C. Cass. pen. 15/06/2017, n. 30168).

ORDINE DI DEMOLIZIONE – Sul tema si segnala anche C. Cass. pen. 12/11/2021, n. 41180, che nel ribadire i suesposti principi ha precisato anche che la demolizione ordinata dal giudice non riguarda soltanto l’immobile oggetto del procedimento che ha dato vita al titolo esecutivo, ma anche ogni altro intervento eseguito successivamente che, per la sua accessorietà all’opera abusiva, renda ineseguibile l’ordine medesimo, non potendo consentirsi che un qualunque intervento additivo, abusivamente realizzato, possa in qualche modo ostacolare l’integrale attuazione dell’ordine giudiziale di demolizione dell’opera cui accede e, quindi, impedire la completa restitutio in integrum dello stato dei luoghi (v. C. Cass. pen. 09/11/2018, n. 51058; C. Cass. pen. 09/02/2017, n. 6049).

LA SENTENZA

Corte di Cassazione, sez. III pen., sentenza 3 maggio 2023, n. 18268
(Omissis)
RITENUTO IN FATTO

  1. Con sentenza del 10 luglio 2022, la Corte di appello di Napoli rigettava la richiesta di revisione della sentenza n. 13/98 pubblicata il 1.12.1998 dalla Corte di appello di Salerno e divenuta irrevocabile il 9 luglio 1999, con la quale (Omissis) era stata condannata, previa dichiarazione, in sede di parziale riforma, di non doversi procedere in ordine ad un reato di cui alla L. n. 64/74, siccome estinto per prescrizione, per i restanti reati, con conferma dell’ordine di demolizione di un manufatto abusivo.
  2. Avverso tale sentenza (Omissis), mediante il proprio difensore, ha proposto ricorso, deducendo un unico motivo di impugnazione.
  3. Si sostiene che la corte di appello avrebbe respinto l’istanza sul rilievo per cui il verbale di sopralluogo della polizia municipale farebbe fede sino a querela di falso, con conseguente mancata prova della preesistenza di abusi edilizi non indicati nel verbale stesso, sebbene, a fronte di una eccepita falsità di una prova, sia compito del giudice adito in sede di revisione – non svolto invece dalla predetta Corte di appello – accertare la predetta falsità senza necessità di verifica dell’intervenuto giudicato sull’ipotesi di falso, allorquando tale ultimo reato – come nel caso di specie – si sia già estinto ovvero quando si tratti di fatti non riconducibili a reato. Si aggiunge che il predetto verbale sarebbe stato smentito da altro atto fidefacente, quale la certificazione dell’anagrafe edilizia del Comune di (Omissis) redatta dal geometra (Omissis) e depositata al comune in data 15 dicembre 1994. La corte non avrebbe inoltre individuato il reale thema decidendum del giudizio di revisione, da identificarsi nella determinazione della data degli interventi edilizi indicati nel capo di imputazione e non nella data di ultimazione dell’immobile interessato. Si trattava, dunque, di accertare se gli interventi descritti dai Carabinieri di (Omissis) fossero stati accertati antecedentemente al 6 marzo 1995, con conseguente maturazione in tal caso della prescrizione del reato prima del passaggio in giudicato della sentenza impugnata. In ragione della predetta errata impostazione, la Corte di appello avrebbe richiamato i principi in tema di ultimazione, ripresa e rifinitura di opere edilizie e riguardanti altresì la loro incidenza sulla maturazione della prescrizione. Inconferenti sarebbero anche i richiami alla disciplina del condono.
    CONSIDERATO IN DIRITTO
    1.Il ricorso è inammissibile.
  4. Innanzitutto, esso è tale per la mancata specifica indicazione del vizio rilevato. La giurisprudenza di legittimità ha infatti precisato che in tema di ricorso per cassazione, la denunzia cumulativa, promiscua e perplessa della inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, nonché della mancanza, della contraddittorietà e della manifesta illogicità della motivazione, rende i motivi aspecifici ed il ricorso inammissibile, ai sensi degli artt. 581,
    comma primo, lett. c) e 591, comma primo, lett. c), cod. proc. pen., non potendo attribuirsi al giudice di legittimità la funzione di rielaborare l’impugnazione, al fine di estrarre dal coacervo indifferenziato dai motivi quelli suscettibili di un utile scrutinio (sez. 1, n. 39122 del 22/09/2015 Rv. 264535 – 01 Rugiano). Si tratta di una precisazione che si correla ad un approfondimento della questione che il giudice di legittimità ha svolto ancor più
    ampiamente con riferimento al vizio motivazionale, avendo al riguardo precisato che è manifestamente infondato il ricorso per Cassazione, in caso di generica indicazione di tale ultima tipologia di vizio, senza alcuna specificazione in termini di carenza, contraddittorietà o illogicità della motivazione. Invero, l’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), stabilisce che i provvedimenti sono ricorribili per “mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame”.
    La disposizione, letta in combinazione con l’art. 581 c.p.p., per cui è onere del ricorrente enunciare tra l’altro i motivi del ricorso, con l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta, evidenzia che non è ammessa l’enunciazione perplessa ed alternativa dei motivi di ricorso: consegue che il ricorrente deve specificare con precisione se la deduzione di vizio di motivazione sia riferita alla mancanza, alla contraddittorietà od alla manifesta illogicità ovvero a una pluralità di tali vizi, che vanno indicati specificamente in relazione alle varie parti della motivazione censurata. (Sez. 2, sentenza n. 31811 dell’8 maggio 2012, Rv. n. 254329).
    Si tratta, quanto ai vizi sollevabili in sede di legittimità, di difetti eterogenei non suscettibili di sovrapporsi e cumularsi in riferimento a un medesimo segmento del costrutto motivazionale che sorregge il provvedimento impugnato.
    I vizi della motivazione, peraltro, si pongono in rapporto di reciproca esclusione, posto che ove la motivazione manchi, essa non può essere, al tempo stesso, né contraddittoria, né manifestamente illogica; di converso, la motivazione viziata non è mancante; infine, il vizio della contraddittorietà della motivazione (introdotto dall’articolo 8 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, che ha novellato l’articolo 606, comma 1, lettera e), cod. proc. pen.) è nettamente connotato rispetto alla manifesta illogicità (cfr. sez. 1, n. 39122 del 22/09/2015 Rv. 264535 cit.).
    Orbene, la sostanziale mescolanza dei motivi di ricorso, cumulati nella indistinta prospettazione di un vizio di motivazione, che si esprime anche sul piano grafico in un unico quanto indistinto motivo sul punto delle censure proposte, connotato dalla progressiva mera elencazione di circostanze di fatto e di argomenti mai connessi alla puntuale indicazione del vizio deducibile, rende l’impugnazione “a-specifica”.
  5. Tanto premesso, è sufficiente altresì aggiungere che la corte di appello, nel quadro di una complessiva
    del compendio probatorio, comprensivo non solo degli elementi in base ai quali furono assunte le sentenze di merito ma anche di quelli acquisiti nel giudizio di revisione, ha dato conto in maniera completa e coerente di come risulti indimostrata la tesi difensiva, diretta a collocare le opere accertate dai Carabinieri di
    (Omissis), e dalla stessa polizia locale, in epoca anteriore al 31.12.1993, nella misura in cui ha rilevato che né il rilievo aerofotogrammetrico dell’agosto del 1994 né tantomeno la tesi del tecnico esperto circa la simultanea realizzazione dei profili strutturali complessivi dell’opera, risultano sufficienti a superare la ricostruita sequenza temporale degli interventi abusivi per i quali intervenne condanna; ciò in ragione del logico rilievo per cui, mentre lo stesso accertamento aerofotogrammetrico attiene ad una visione operata dall’alto rispetto al manufatto, gli interventi che segnarono il giudizio di prosecuzione nel tempo delle opere abusive, fino al marzo del 1995, furono costituiti da iniziative edili interne, come tali descritte dagli operanti, e quindi insuscettibili di essere individuate e descritte attraverso una sola e mera ripresa dall’alto. Cosicchè, appare un mero artifizio retorico l’insistere sul dato per cui le nuove prove atterrebbero alla creazione di volumi esterni, posto che qualsiasi opera abusiva (tranne quelle interrate) si connota per la sua portata “esterna”, trascurandosi, tuttavia, l’argomento dirimente indicato dalla Corte, e costituito, lo si ripete, dalla valorizzazione della realizzazione, nel tempo, di opere, quantomeno esaminate anche e necessariamente nella loro portata progressiva ed interna. Analoghe, condivisibili considerazioni, sono state formulate circa la non decisività della certificazione dell’anagrafe edilizia pure prodotta in giudizio (che quindi non può ritenersi idonea a smentire gli accertamenti degli operanti come invece sostenuto in ricorso), siccome anche essa è limitata ad attestare profili esterni dell’edificio. Congrua appare anche la
    valorizzazione di dati inerenti la procedura di condono, anche essi attestativi della prosecuzione di opere, talune accertate addirittura il 31 agosto 1995.
    In tal senso, del tutto coerente è la valorizzazione dei principi che delineano il perimetro entro cui un immobile abusivo può dirsi proseguito ed alfine ultimato, seppure attraverso la realizzazione di interventi “minori”, quali opere di rifinitura o attività che, se inerenti a strutture abusive, si noti bene, perdono la loro consistenza anche solo meramente manutentiva, e perciò all’apparenza lecita, per integrare, piuttosto, condotte più correttamente definibili
    di prosecuzione dell’opera abusiva. Tanto in considerazione del noto principio per cui non possono ritenersi lecite, ancorché non richiedenti astrattamente autorizzazione o fornite di un formale titolo autorizzatorio, le opere che, seppur autonomamente e astrattamente qualificabili come interventi privi di rilevanza penale, siano realizzate in prosecuzione di precedenti illeciti edilizi mai previamente sanati o condonati. (Sez. 3, n. 18199 del 07/04/2005
    Rv. 231527 – 0; Sez. 3, n. 41079 del 20/09/2011 Rv. 251290 – 01, Sez. 3, n. 9130 del 06/07/2000 Rv. 217215 01).
    Si è in proposito espressamente precisato, anche di recente, che qualsiasi intervento effettuato su una costruzione realizzata abusivamente, ancorché l’abuso non sia stato represso, costituisce una ripresa dell’attività criminosa originaria, che integra un nuovo reato, anche se consista in un intervento di manutenzione ordinaria, perché anche tale categoria di interventi edilizi presuppone che l’edificio sul quale si interviene sia stato costruito legittimamente
    (Sez. 3 – n. 48026 del 10/10/2019 Rv. 277349 – 01). Facendo applicazione di tale principio generale, si è tra l’altro precisato che in tema di reati edilizi, il regime della comunicazione di inizio lavori asseverata (c.i.l.a.) non è applicabile alle opere da eseguirsi su manufatti il cui originario carattere abusivo sia stato accertato con sentenza definitiva e che non risultino essere state oggetto di condono edilizio o di accertamento di conformità, poiché gli
    interventi ulteriori su immobili abusivi ripetono le caratteristiche di illegittimità dal manufatto principale, al quale ineriscono strutturalmente. (Sez. 3 – n. 41105 del 12/07/2018 Rv. 274063 – 01; e ancora, con riguardo a interventi ricondotti astrattamente al regime di denuncia di inizio attività (DIA), o di Scia, rispettivamente, sez. 3, n. 51427 del 16/10/2014 Rv. 261330 – 01; Sez. 3, n. 30168 del 24/05/2017 Rv. 270252 – 01).
    Pertinente, in tale quadro giuridico, è anche il rilievo della irrilevanza in sé della datazione dell’allaccio di utenze per determinare l’epoca di realizzazione e ultimazione del manufatto abusivo.
    Ad una così completa e coerente motivazione, si contrappone una mera rivalutazione di dati, peraltro parziale nonché priva di un completo confronto con gli argomenti, plurimi, elaborati dai giudici del merito, come tale inammissibile in questa sede.
  6. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per la ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che la ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
    P.Q.M.
    dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
  7. Così deciso, Roma, 13 aprile 2023
    Depositato in Cancelleria 3 maggio 2023