CAMBIO DI DESTINAZIONE D’USO: ATTENZIONE AL COSTO DEL CONDONO AL MOMENTO DELL’ACQUISTO

Un acquirente aveva acquistato un appartamento per scopi abitativi, ma successivamente lo aveva convertito in un ufficio professionale senza ottenere le necessarie autorizzazioni amministrative e urbanistiche. In seguito a un controllo da parte dell’amministrazione comunale, l’acquirente venne sanzionato e gli venne imposto di ripristinare la destinazione originaria dell’immobile.

L’acquirente decise di impugnare il provvedimento del Comune davanti al Tar Lazio, sostenendo di non dover ripristinare la destinazione originaria in quanto non si erano verificati cambiamenti strutturali o estetici all’immobile.

Il Tar Lazio, tuttavia, respinse il ricorso dell’acquirente e confermò l’obbligo di ripristinare la destinazione originaria dell’immobile.

Secondo la sentenza, il cambio di destinazione d’uso deve essere autorizzato dall’amministrazione comunale in quanto implica una diversa gestione degli spazi e un diverso impatto sull’ambiente circostante.

L’acquirente fu quindi costretto a ripristinare l’appartamento come unità abitativa, subendo così un notevole disagio e spese aggiuntive.

Questa sentenza evidenzia l’importanza di fare attenzione alla destinazione d’uso di un immobile prima di acquistarlo. È fondamentale verificare attentamente le normative edilizie e urbanistiche del Comune di appartenenza, così come i regolamenti condominiali. In caso di dubbi o incertezze, è consigliabile consultare un professionista del settore immobiliare o legale per evitare futuri problemi.

In conclusione, fare attenzione alle caratteristiche e alla destinazione d’uso di un immobile prima di acquistarlo può evitare spiacevoli conseguenze amministrative, legali e economiche a lungo termine.

I fatti di causa

Un neo acquirente di un immobile sito nel comune di Roma, acquistava un appartamento adibito a studio commerciale, seppur catastalmente risultante ad uso abitazione. Il nuovo proprietario, consapevole di tale incongruenza continuava ad adibire a studio professionale, senza effettuare opere allo scopo, né modificare in alcun modo la superficie, la volumetria e le caratteristiche dell’appartamento. Per tale motivo lo stesso proprietario decideva di presentare domanda di condono edilizio in relazione al già intervenuto cambio di destinazione d’uso, con annesso pagamento degli oneri dovuti nella misura forfettaria prevista con valore fisso pari ad euro 567,60, identificando l’abuso al  n. 6 dell’Allegato I del D.L. n. 269/2003 rubricato “opere o modalità di esecuzione non valutabili in termini di superfici e di volume”.

L’amministrazione comunale però, seppur accoglieva la domanda di condono edilizio, subordinava il rilascio della sanatoria al maggior pagamento della somma di euro 50.234,36 utilizzando un diverso metodo di calcolo rispetto al contribuente, identificando la fattispecie tra quelle di cui al n. 3 del citato allegato, rubricando l’intervento sotto la voce “ristrutturazioni edilizie abusive”.

Ad avviso del proprietario però il cambio di destinazione d’uso, ove realizzato come nel caso di specie in assenza di nuove opere (e senza alcuna variazione di superficie o volume), non potrebbe mai sussumersi nella fattispecie della ristrutturazione edilizia, decidendo così di impugnare il provvedimento.

La decicisione del TAR Lazio

I giudici hanno fatto propria la giurisprudenza più recente del Consiglio di Stato la quale afferma che il mutamento di destinazione d’uso di un immobile deve considerarsi urbanisticamente rilevante e, come tale, soggetto di per sé all’ottenimento di un titolo edilizio abilitativo.

Occorre precisare che soltanto il cambio di destinazione d’uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incidente sul carico urbanistico) mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, integra una vera e propria modificazione edilizia con incidenza sul carico urbanistico, con conseguente necessità di un previo permesso di costruire, senza che rilevi l’avvenuta esecuzione di opere. Dunque, nel caso in esame, è evidente che il cambiamento da uso abitazione ad uso professionale ha prodotto un aggravio di carico urbanistico oggettivamente incontestabile, nonché che le categorie “residenziale” e “studio professionale” non sono tra loro omogenee (potendo la seconda al più ricondursi nella categoria “commerciale”, quindi una categoria comunque diversa da quella residenziale).

Alla luce di tutto ciò il Tar respinge il ricorso e condanna altresì il ricorrente alle spese di giudizio.

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