I MESSAGI DI WHATSAPP COME PROVA NEI PROCEDIMENTI DISCIPLINARI E PENALI

Il Consiglio Nazionale Forense, con la sentenza R.G. n. 2/22 R.D. 376/2024, ha sancito la valenza probatoria dei messaggi WhatsApp, riconoscendoli come elementi di prova validi nei procedimenti disciplinari.

La vicenda trae origine dal ricorso presentato da un avvocato impugnante, destinatario di una sanzione disciplinare inflitta dal Consiglio di Disciplina del Veneto, che aveva disposto la sua sospensione dall’esercizio della professione per due mesi. Il provvedimento disciplinare si fondava su specifiche contestazioni di condotta.

Le accuse mosse nei confronti dell’avvocato riguardavano:

  • Violazione degli articoli 26, comma 3, e 27, comma 6, del Codice Deontologico Forense, per omessa attività professionale relativa alla gestione di un procedimento di separazione giudiziale, oltre alla trasmissione di informazioni non veritiere al cliente riguardo allo stato del ricorso e alla mancata restituzione di un acconto di 700 euro ricevuto per l’incarico, nonostante l’impegno assunto mediante messaggi WhatsApp datati 22 e 30 marzo 2018;
  • Violazione dell’art. 16 del Codice Deontologico Forense, per mancata emissione di fattura relativa agli acconti ricevuti dal cliente tramite bonifico bancario (200 euro il 24 agosto 2017 e 500 euro il 16 ottobre 2017).

Il cliente, constatata l’assenza del deposito del ricorso promesso dall’avvocato, aveva segnalato il comportamento all’Ordine degli Avvocati, allegando le comunicazioni WhatsApp come prova dell’illecito deontologico. Il Consiglio di Disciplina, nel valutare la documentazione e le testimonianze acquisite, ha applicato il principio del libero convincimento, attribuendo valore probatorio alle conversazioni registrate nel procedimento disciplinare, in linea con la sentenza del Consiglio Nazionale Forense n. 81 del 28 aprile 2021.

L’orientamento della giurisprudenza di legittimità rafforza tale posizione, confermando la qualificazione giuridica dei messaggi WhatsApp e degli SMS come documenti ai sensi dell’art. 234 del codice di procedura penale. La Corte di Cassazione, nella sentenza Sez. Pen. 3, n. 8332 del 5 novembre 2019 (dep. 2 marzo 2020), ha stabilito che tali comunicazioni possono essere acquisite tramite riproduzione fotografica, senza che trovino applicazione le disposizioni sulle intercettazioni o sulla corrispondenza (art. 254 c.p.p.), in quanto rappresentano una documentazione ex post di flussi comunicativi già avvenuti. Conseguentemente, nei procedimenti penali, è legittima l’acquisizione di SMS o messaggi WhatsApp inviati dall’imputato e fotografati dallo schermo del telefono cellulare su cui risultano leggibili.

Questa pronuncia consolida il riconoscimento dei messaggi digitali come prove documentali, contribuendo a chiarire il loro impiego nelle valutazioni disciplinari e nei giudizi penali.