Corte di Cassazione Sez.III Sentenza n.10917 del 01 Aprile 2020

Il progettista, che attesti, nella planimetria e nella relazione illustrativa allegate alla domanda di permesso di costruire, una falsa destinazione d’uso dell’opera  o che, più in generale, rediga planimetrie finalizzate alla domanda per il rilascio del permesso di costruire non corrispondenti alla realtà, commette un reato.

In materia edilizia infatti il legislatore ha previsto, in capo ai progettisti, obblighi e responsabilità del tali da conferire loro il ruolo di garanti del rispetto delle norme in materia. Questa posizione di garanzia, assunta nell’interesse della pubblica amministrazione, può comportare, in caso di violazioni alle normative , delle responsabilità di carattere disciplinare e penale.
Il legislatore impone al professionista abilitato (ingegnere, architetto o geometra iscritto ad un albo professionale) ad una serie di accertamenti di conformità e riconosce il ruolo di soggetto esercente un servizio di pubblica necessità, ruolo dal quale discendono delle responsabilità in campo penale.
Il comportamento sanzionato penalmente che si può attribuire al tecnico, a fronte del ruolo assunto è connesso dunque all’attività di certificazione che può comportare, se non eseguita in modo veritiero, la commissione di reati contro la fede pubblica.
Nei procedimenti amministrativi per il rilascio del permesso di costruire, così come in caso di Dia/Scia il tecnico progettista deve presentare una relazione di asseverazione che ha valore di certificazione.

La Corte di Cassazione, Sez.III, con la Sentenza n.10917 del 01 aprile 2020, ha nuovamente evidenziato, che il reato di cui all’art. 20, comma 13, Dpr 6 giugno 2001, n.380, che punisce le false dichiarazioni o attestazioni o asseverazioni circa l’esistenza dei requisiti e presupposti per il rilascio del permesso di costruire, ha un ambito applicativo che si sovrappone interamente alla fattispecie di falso ideologico in certificati commesso da persone esercenti un servizio di pubblica necessità (art. 481 cod. pen.) e di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico (art. 483 cod. pen.), di cui assorbe il disvalore, e si consuma quando oggetto di asseverazione non siano esclusivamente fatti che cadono sotto la percezione materiale dell’autore della dichiarazione, ma giudizi.Il reato di cui all’art. 20, comma 13, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, che punisce le false dichiarazioni o attestazioni o asseverazioni circa l’esistenza dei requisiti e presupposti per il rilascio del permesso di costruire, ha un ambito applicativo che si sovrappone interamente alla fattispecie di falso ideologico in certificati commesso da persone esercenti un servizio di pubblica necessità (art. 481 cod. pen.) e di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico (art. 483 cod. pen.), di cui assorbe il disvalore, e si consuma quando oggetto di asseverazione non siano esclusivamente fatti che cadono sotto la percezione materiale dell’autore della dichiarazione, ma giudizi. Iintegra il reato di falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità (art. 481 cod. pen.) la condotta del tecnico-professionista – commessa prima della modifica dell’art. 20, comma 13, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, disposta dalla dalla legge 12 luglio 2011 n 106 – che, per esempio, attesti, nella planimetria e nella relazione illustrativa allegate alla domanda di permesso di costruire, una falsa destinazione d’uso dell’opera  o che, più in generale, rediga planimetrie finalizzate alla domanda per il rilascio del permesso di costruire non corrispondenti alla realtà, giacché dette planimetrie non sono destinate a provare la verità di quanto rappresentatovi, ma svolgono la funzione di dare alla P.A. – la quale resta pur sempre titolare del potere di procedere ad accertamenti autonomi – un’esatta informazione sullo stato dei luoghi.

IL FATTO 

Con sentenza del 04/07/2017, Il Tribunale di Lecce dichiarava Cassiano Cosimo e Romano Antonio responsabili dei reati previsti dagli artt. 44 lett. c) dpr n. 380/2001 e dall’art. 181 d.lgs 42/2004, (per aver realizzato -unitamente ai coimputati Theodore David Dunbar e Roger Matthews Susan-  in totale assenza di legittimi permesso di costruire e autorizzazione paesaggistica un manufatto di mq 158,05 nq e di 629,64 mc, dopo la demolizione e ricostruzione di preesistenti manufatti, peraltro in assenza in capo ai proprietari/committenti della necessaria qualifica di imprenditori agricoli ovvero di coltivatori diretti) nonché del reato di cui agli artt. 81 cpv,110, 483 e 48/479 cod.pen (perché, nelle rispettive qualità di beneficiario del permesso di costruire e progettista, con false attestazioni, inducevano in errore il responsabile dell’U.T.del Comune di Salve che, nell’esercizio delle sue funzioni, emetteva il permesso di costruire n. 145 del 2.8.2010 e l’ autorizzazione paesaggistica n. 132 del 23 ottobre 2008).
Con sentenza del 15/10/2018, la Corte di appello di Lecce confermava la predetta sentenza nei confronti di Cassiano Cosimo e Romano Antonio e, riqualificati i fatti ascritti agli attuali ricorrenti nella fattispecie di cui agli artt. 81,110,48 e 480 cod.pen., dichiarava non doversi procedere nei confronti del Cassiano e del Romano in ordine al delitto commesso in data 23.10.2008 perché estinto per prescrizione e rideterminava la pena per i residui reati loro ascritti in mesi cinque di reclusione ciascuno; assolveva, poi, i coimputati dai reati loro ascritti per non aver commesso il fatto.
2. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione Cassiano Domenico e Romano Antonio, a mezzo dei difensori di fiducia, chiedendone l’annullamento ed articolando i motivi di seguito enunciati.


Cassiano Domenico propone cinque motivi di ricorso.
Con il primo motivo deduce violazione di legge, vizio di motivazione e travisamento ed omesso valutazione di prova decisiva, lamentando che la Corte territoriale aveva escluso che l’intervento edilizio rientrasse nella previsione dell’art. 3, comma 1, lett. d) d.P.R. n. 380/2001, come modificato dal cd Decreto del fare, difettando i parametri del manufatto preesistente, senza valutare la ricostruzione storico-grafica dello stesso contenuta nella relazione del consulente tecnico della difesa e le risultanze del catasto onciario della Provincia di Lecce.
Con il secondo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla sussistenza del reato di cui all’art. 181 d.lgs 42/2004, lamentando che la Corte territoriale aveva dato rilievo ad una ritenuta illegittimità dell’autorizzazione paesaggistica perché rilasciata in violazione della normativa urbanistica, essendo invece rilevante la valutazione dell’impatto ambientale ed estetico dell’edificio, regolarmente effettuata; tale questione era stata oggetto di specifico motivo di appello, in ordine al quale la Corte di appello era rimasta silente, così incorrendo in vizio di motivazione.
Con il terzo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento al termine di decorrenza della prescrizione dei reati di cui al capo a) dell’imputazione, lamentando che la corte di appello non aveva considerato rilevante la sospensione volontaria dell’attività edilizia a partire dal 16.10.2012 con motivazione erronea, individuando, invece, quale dies a quo per il decorso del termine prescrizionale la data del 1.3.2013; i reati in questione, invece, dovevano ritenersi prescritti già prima della pronuncia di secondo grado.
Con il quarto motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla valutazione di falsità ideologica del permesso di costruire e dell’autorizzazione paesaggistica; tale falsità era stata fondata su una difformità tra stato di fatto preesistente e tavole progettuali sulle quali i successivi provvedimenti autorizzatori si sarebbero basati; siffatta impostazione era gravemente erronea in punto di diritto, in quanto la falsità ideologica non poteva configurarsi con riferimento al contenuto valutativo di un documento e tale era l’elaborato tecnico progettuale; contesta, poi, la configurabilità della concreta induzione in errore del pubblico funzionario, in quanto dalla prima delle tavole grafiche si rappresentava fedelmente lo stato dei luoghi; deduce poi, che al più poteva configurarsi la meno grave fattispecie di cui all’art. 483 cod.pen.
Con il quinto motivo deduce vizio di motivazione e violazione di legge in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di falso, lamentando che la Corte territoriale aveva valorizzato solo elementi di fatto ritenuti pregiudizievoli per gli imputati, tralasciando quelli che comprovavano la buona fede del Cassiano e del tecnico progettista (era stato richiesto il permesso di costruire e non la Scia, i luoghi erano stati rappresentati fedelmente, complessità della materia).


Romano Antonio propone tre motivi di ricorso.
Con il primo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’affermazione di responsabilità a titolo di concorso nei reati di cui agli artt. 181 d.lgs 42/2004 e 44 lett. c) dpr. 380/2001.
Argomenta che la questione, oggetto di specifico motivo di appello, era stata risolta dalla Corte territoriale con una motivazione in contrasto con i principi giuridici che regolano la materia del concorso del progettista nel reato di abuso edilizio, che escludono che la sola redazione del progetto e la predisposizione dei documenti accessori – come avvenuto nella specie- consentano di ravvisare il concorso nel reato.
Con il secondo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al valore fidefacente attribuito alla asseverazione del progettista ed alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 480 cod.pen.
Argomenta che la Corte di appello non aveva considerato che il tecnico aveva descritto e documentato fedelmente lo stato di fatto e che gli uffici preposti al rilascio del titolo autorizzatorio avrebbero potuto e dovuto verificare senza difficoltà l’incongruenza tra il rudere come descritto e fotografato e le valutazioni a fini progettuali che il Romano aveva formulato; andava, inoltre, considerato che solo a seguito del d.l n. 70/2011, conv. nella legge n. 106/2011 erano state punite con la disposizione di cui all’art. 20, comma 13, le false dichiarazioni ed attestazioni circa l’esistenza dei requisiti o dei presupposti per il rilascio del permesso di costruire.
Con il terzo motivo deduce violazione degli artt. 62 bis, 163 e 164 cod.pen. e correlato vizio di motivazione.
Lamenta che la Corte di appello aveva offerto una motivazione insufficiente in ordine al diniego delle circostanze attenuanti generiche, non considerando gli elementi favorevoli indicati nei motivi di appello ed omesso di rispondere in ordine alla richiesta di concessione della sospensione condizionale della pena.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Vanno, previamente e congiuntamente, esaminati i motivi quarto e quinto del ricorso di Cassiano Cosimo ed il secondo motivo del ricorso di Romano Antonio, tutti aventi ad oggetto censure relative all’affermazione di responsabilità per il reato di cui agli artt. 48 e 480 cod.pen.

1.1. La Corte di appello ha riqualificato l’originaria imputazione per il reato di cui all’art. 479 cod.pen. in quella di cui all’art. 48/480 cod.pen., rimarcando come il permesso di costruire e l’autorizzazione paesaggistica avessero natura giuridica di autorizzazione amministrativa e che il falso ideologico era integrato dalla falsa attestazione di conformità fra lo stato dei luoghi preesistente e quello riportato nelle tavole progettuali, con induzione in errore del responsabile UTC, che emetteva i successivi provvedimenti autorizzatori.
Il delitto di cui all’art. 480 cod.pen. è stato, pertanto, riconosciuto sul presupposto dell’illegittimo rilascio dei titoli abilitativi sulla base di un falso presupposto di fatto e, cioè, la conformità tra lo stato dei luoghi preesistente e quello riportato nelle tavole progettuali, dato rappresentato nella relazione tecnica e nei grafici allegati alla richiesta di permesso di costruire del 15.7.2008; sulla base di tale falso presupposto determinato dalle false dichiarazioni, successivamente, erano stati emessi i provvedimenti autorizzatori (permesso di costruire n. 145 del 2.8.2010 ed autorizzazione paesaggistica del 23.10.2008).
I Giudici di appello, hanno, quindi, confermato l’affermazione di responsabilità, qualificando diversamente i fatti, e dichiarato estinto per prescrizione il delitto commesso in data 23.10.2008 (il falso ideologico relativo alla autorizzazione paesaggistica).
I motivi di ricorso, che contestano la sussistenza del reato, sono fondati.

1.2. Va premesso che, secondo il condivisibile orientamento giurisprudenziale, il falso per induzione ex art. 48 cod.pen. diretto a ottenere una concessione edilizia che riproduca le false dichiarazioni del privato (ovvero false rappresentazioni del progettista) è punibile ai sensi degli artt. 48, 480 cod.pen., avuto riguardo alla natura di autorizzazione amministrativa della concessione edilizia ora permesso a costruire (S.U. n. 673 del 20/11/1996, Botta, Rv. 206661; Sez. 5, n. 37555 del 15/07/2008, P.G. in proc. Anello, Rv. 241643;Sez.3, n.7273 del 09/01/2018, Rv.272559 – 01). Infatti, in tema di falso in atto pubblico per induzione, qualora il pubblico ufficiale adotti un provvedimento a contenuto descrittivo o dispositivo dando atto in premessa, dell’esistenza delle condizioni richieste per la sua adozione, desunte da atti o attestazioni non veri prodotti dal privato, il provvedimento del pubblico ufficiale è ideologicamente falso, in quanto adottato sulla base di un presupposto inesistente e del falso non risponde il pubblico ufficiale, tratto in inganno, ma il soggetto che lo ha indotto in errore, non essendo configurabile, per difetto dei presupposti, il diverso reato di cui all’art. 483 cod.pen. e ciò non solamente perché non si è in presenza di un atto pubblico (non riveste tale qualifica la concessione edilizia come affermato sin dalle S.U. Botta) nel quale sono confluite le false dichiarazioni del privato su fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità, ma per la considerazione che il fatto materiale è commesso dal pubblico ufficiale, ma di questo egli non risponde in virtù del disposto di cui all’art. 48 cod.pen., secondo cui del fatto materiale illecito altrui risponde colui che ha indotto in errore, sicchè anche per questa ragione giammai potrebbe trovare applicazione l’art. 483 cod.pen. che punisce appunto un fatto materiale commesso dal privato (falsa dichiarazione del privato in atto pubblico).
Non è, invece, pertinente, nella specie, il richiamo alla disposizione di cui all’art. 20, comma 13, dpr n. 380/2001, introdotto dalla legge 12 luglio 2011 n. 106, successivamente ai fatti per cui è causa.
Questa Corte ha, infatti, affermato il principio secondo il quale

il reato di cui all’art. 20, comma 13, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, che punisce le false dichiarazioni o attestazioni o asseverazioni circa l’esistenza dei requisiti e presupposti per il rilascio del permesso di costruire, ha un ambito applicativo che si sovrappone interamente alla fattispecie di falso ideologico in certificati commesso da persone esercenti un servizio di pubblica necessità (art. 481 cod. pen.) e di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico (art. 483 cod. pen.), di cui assorbe il disvalore, e si consuma quando oggetto di asseverazione non siano esclusivamente fatti che cadono sotto la percezione materiale dell’autore della dichiarazione, ma giudizi (Sez. 3, n. 29251 del 05/05/2017, Vigliar, Rv. 270432). Ed è stato contestualmente precisato che integra il reato di falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità (art. 481 cod. pen.) la condotta del tecnico-professionista – commessa prima della modifica dell’art. 20, comma 13, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, disposta dalla dalla legge 12 luglio 2011 n 106 – che, per esempio, attesti, nella planimetria e nella relazione illustrativa allegate alla domanda di permesso di costruire, una falsa destinazione d’uso dell’opera (Sez. 3, n, 29251, cit., Rv. 270433) o che, più in generale, rediga planimetrie finalizzate alla domanda per il rilascio del permesso di costruire non corrispondenti alla realtà, giacché dette planimetrie non sono destinate a provare la verità di quanto rappresentatovi, ma svolgono la funzione di dare alla P.A. – la quale resta pur sempre titolare del potere di procedere ad accertamenti autonomi – un’esatta informazione sullo stato dei luoghi (così Sez. 3, n. 15228 del 31/01/2017, Cucino, Rv. 269579).
Tanto premesso, nella specie, il reato di cui agli artt. 48 e 480 cod.pen., come detto, è stato ritenuto integrato dalla falsa attestazione – contenuta nella relazione tecnica e nei grafici allegati alla richiesta di permesso di costruire del 15.7.2008 – di conformità fra lo stato dei luoghi preesistente e quello riportato nelle tavole progettuali, con conseguente induzione in errore del responsabile UTC che emetteva i successivi provvedimenti autorizzatori.

Orbene, rileva il Collegio che la relazione di accompagnamento alla richiesta di permesso di costruire riportava specificamente gli elementi fattuali necessari ai fini del giudizio di conformità urbanistica e ambientale, e, cioè, lo stato di conservazione del fabbricato preesistente (riferito come pessimo, definito come agglomerato edilizio in rovina e rappresentato anche con ampia documentazione fotografica dello stato dei luoghi) ed il suo sviluppo originario.
Non sussisteva, quindi, alcuna contraffazione o alterazione dei dati fattuali che dovevano costituire i presupposti di fatto per l’adozione dei provvedimenti abilitativi né la relazione conteneva dichiarazioni su circostanze o fatti contrari al vero; inoltre, la distinta valutazione relativa al giudizio di conformità urbanistica e ambientale dell’opera a farsi, costituiva valutazione, di natura sia tecnica che giuridica, circa la fattibilità del richiesto intervento: essa, da un punto di vista sostanziale, secondo una valutazione di merito, poteva essere corretta o sbagliata ma non involgeva una immutatio veri e non poteva integrare il reato contestato.
Ne consegue che nei confronti dei ricorrenti la sentenza impugnata deve essere annullata, quanto al contestato reato di cui agli artt. 48 e 480 cod.pen. senza rinvio perché il fatto non sussiste.

2. Vanno, quindi, esaminati il primo ed il terzo motivo di Romano Antonio.
Tali motivi non sono inammissibili e consentono, quindi, essendosi validamente instaurato il rapporto processuale, di rilevare l’intervenuta estinzione di tali reati per decorso del termine massimo di prescrizione (in data 21.11.2018).
Con il primo motivo si censura la motivazione relativa all’affermazione di responsabilità a titolo di concorso nel reato urbanistico e nel reato paesaggistico.
Questa Corte (Sez.3, n.31282 del 24/05/2017, Rv.270278 – 01) ha affermato che la sola veste di progettista di un manufatto abusivo non consente, di per sé, di ravvisare la responsabilità, neanche a titolo il concorso, per reato di cui all’art. 44 d.P.R. n. 380/2001, atteso che la fase di redazione di un progetto, anche se difforme dalla normativa vigente, va tenuta distinta da quella di direzione dei lavori, e non può configurarsi un nesso di causalità tra la redazione del progetto e l’attività di attuazione dello stesso, soltanto per la quale sussiste rilevanza penale, ed alla quale il progettista deve avere fornito un apporto concreto ed ulteriore, rispetto alla mera redazione del progetto (Sez. 3, n. 8420 del 12/12/2002, Ridolfi, Rv. 224166, conf. Sez. 3, n. 47271 del 22/9/2016, Ayma, non massimata; ed in tema di reato paesaggistico, cfr Sez.2, n.9229 del 02/08/1994, Rv.198794 – 01, che ha affermato analogo principio sia pure con riferimento alla contravvenzione di cui all’art. 1 “sexies” legge 8 agosto 1985, n. 431).
Sul punto la motivazione della sentenza impugnata risulta viziata e carente, perché la Corte territoriale si limita ad afferma che il progettista aveva dolosamente alterato la realtà dei luoghi al fine di ottenere il rilascio di un permesso a costruire non conforme alla normativa vigente, senza precisare quale sia stato l’apporto concreto ed ulteriore apportato nella fase di realizzazione dell’opera rispetto alla redazione del progetto.
Con riferimento al terzo motivo va rilevato che, nonostante specifico motivo di appello, la Corte territoriale rimaneva silente in ordine al diniego di concessione della sospensione condizionale della pena, con conseguente vizio di motivazione anche sul punto.
Orbene, il principio di immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità sancito dall’art. 129 cod.proc.pen., impone che nel giudizio di cassazione, qualora ricorrano contestualmente una causa estintiva del reato e una nullità processuale assoluta e insanabile o un vizio di motivazione, sia data prevalenza alla prima, salvo che – circostanza che non ricorre nel caso in esame- l’operatività della causa estintiva presupponga specifici accertamenti e valutazioni riservati al giudice di merito (Sez.U, n.35490 del 28/05/2009, Rv.244275; Sez. 4, n.36896 del 13/06/2014, Rv. 260299; Sez.2, n.6338 del 18/12/2014, dep.13/02/2015, Rv.262761; Sez.3, n.42703 del 07/07/2015, Rv.265194).
Ne consegue che nei confronti di Romano Antonio la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, anche in relazione agli ulteriori addebiti contestatigli, per essere i reati estinti per intervenuta prescrizione e non emergendo dal testo del provvedimento impugnato elementi che possano giustificare l’applicazione dell’art. 129, comma 2, cod. proc. pen. (cfr Sez.6,n.48461 del 28/11/2013,Rv.258169; Sez.6, n.27944 del 12/06/2008, Rv.240955).

3. Residua, quindi, l’esame dei motivi primo, secondo e terzo di Cassiano Cosimo.
Il primo ed il terzo motivo di ricorso sono manifestamente infondati.

3.1. La prima censura è meramente ripropositiva di doglianza adeguatamente valutata e disattesa dalla Corte territoriale, con congrua e logica motivazione.
La Corte di appello ha compiutamente argomentato in ordine alla natura dell’intervento edilizio (realizzazione di unità immobiliare in zona sottoposta a più vincoli paesaggistici derivanti non solo da apposito decreto ministeriale ma anche dal PUTT, quale ambito territoriale esteso C), sottolineando come fosse pacifico che tale intervento avesse avuto ad oggetto non manufatti da ristrutturare ma veri e propri ruderi e che difettava il parametro del “preesistente” (vedi pag 5 della sentenza impugnata) per poter invocare la normativa relativa alla cd “ristrutturazione leggera”
In particolare, ha correttamente richiamato i seguenti principi di diritto: integra i reati di cui agli artt. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 e 181 del d.lgs. n. 42 del 2004 la ricostruzione di un “rudere” senza il preventivo rilascio del permesso di costruire e dell’autorizzazione paesaggistica, sia perchè trattasi di intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione di un edificio preesistente, dovendo intendersi per quest’ultimo un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, sia perchè non è applicabile l’art. 30 del D.L. n. 69 del 2013 (conv. in legge n. 98 del 2013), che, per assoggettare gli interventi di ripristino o di ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, al regime semplificato della S.C.I.A. richiede, nelle zone vincolate, l’esistenza dei connotati essenziali di un edificio (pareti, solai e tetto), o, in alternativa, l’accertamento della preesistente consistenza dell’immobile in base a riscontri documentali, alla verifica dimensionale del sito o ad altri elementi certi e verificabili, nonchè, in ogni caso, il rispetto della sagoma della precedente struttura (Sez. 3,n. 40342 del 03/06/2014, Rv.260552 – 01); in tema di reati edilizi, l’art. 30 del D.L. n. 69 del 2013 (conv. in legge n. 98 del 2013) consente di qualificare come “ristrutturazione edilizia” l’intervento di ripristino o di ricostruzione di un edificio o di parte di esso, eventualmente crollato o demolito, anche in caso di modifica della sagoma dello stesso ove insistente su zona non vincolata, a condizione però che sia possibile accertarne, in base a riscontri documentali o altri elementi certi e verificabili e non, quindi, ad apprezzamenti meramente soggettivi, la preesistente “consistenza”, intesa come il complesso di tutte le caratteristiche essenziali dell’edificio (volumetria, altezza, struttura complessiva, etc.); con la conseguenza che la mancanza anche di uno solo di tali elementi, necessari per la dovuta attività ricognitiva, impedisce di ritenere sussistente il requisito che la citata disposizione richiede per escludere, in ragione della anzidetta qualificazione, la necessità di preventivo permesso di costruire (Sez.3,n.45147 del 08/10/2015, Rv.265444 – 01).
La Corte di appello, quindi, facendo buon governo dei suesposti principi di diritto, ha confermato la valutazione del Tribunale in ordine alla impossibilità di individuare le caratteristiche costruttive originarie dell’immobile diruto, analizzando la descrizione contenuta nell’originario atto di donazione, la documentazione fotografica allegata al progetto; ha anche escluso, condividendo la valutazione già espressa dal Tribunale, che potesse avere rilievo lo studio storico o le rilevazioni inerenti ad edifici simili per delineare la consistenza del manufatto crollato, richiamando anche Sez.3, n.39340 del 2018, non mass. che ha rimarcato che l ‘art. 30 del d.l. n. 69 del 2013 (conv. in legge n. 98 del 2013) consente di qualificare come “ristrutturazione edilizia” l’intervento di ripristino o di ricostruzione di un edificio o di parte di esso, eventualmente crollato o demolito, anche in caso di modifica della sagoma dello stesso ove insistente su zona non vincolata, a condizione però che sia possibile accertarne, in base a riscontri documentali o altri elementi certi e verificabili e non, quindi, ad apprezzamenti meramente soggettivi, la preesistente “consistenza”, intesa come il complesso di tutte le caratteristiche essenziali dell’edificio (volumetria, altezza, struttura complessiva, etc.), con la conseguenza che la mancanza anche di uno solo di tali elementi, necessari per la dovuta attività ricognitiva, impedisce di ritenere sussistente il requisito che la citata disposizione richiede per escludere, in ragione della anzidetta qualificazione, la necessità di preventivo permesso di costruire; pertanto, l’accertamento della preesistente consistenza di un edificio crollato o demolito che si intende ricostruire mediante ristrutturazione edilizia ai sensi dell’art. 3, comma primo, lettera d) del d.PR. 380101; non può ritenersi validamente effettuata sulla base di studi storici o rilevazioni relativi ad edifici aventi analoga tipologia, restando una simile verifica confinata nell’ambito delle mere deduzioni soggettive e non offrendo alcuna oggettiva evidenza.
Il ricorrente, peraltro, si limita sostanzialmente a proporre una lettura alternativa del materiale probatorio posto a fondamento della affermazione di responsabilità penale, dilungandosi in considerazioni in punto di fatto, che non possono trovare ingresso nel giudizio di legittimità, non essendo demandato alla Corte di cassazione un riesame critico delle risultanze istruttorie.

3.2. Con la terza censura si contesta la individuazione, operata dai Giudici di merito, del dies a quo per la decorrenza del termine di prescrizione del reato edilizio e del reato paesaggistico; tale termine viene fatto coincidere con la data di accertamento del fatto (1.3.2013) e non con la comunicazione di sospensione dei lavori (avvenuta a far data dal 16.10.2012).
La motivazione della Corte di merito a fondamento di tale assunto è congrua e logica, in quanto si sottolinea che la comunicazione di sospensione non ha trovato riscontro nelle risultanze istruttorie, che davano atto che alla data del sopralluogo del 22.10.2012 le opere erano ancora in fase di esecuzione e che le stesse erano state ultimate al momento di esecuzione del successivo sequestro avvenuto in data 27.3.2013; essa è in linea con i principi regolanti la materia: il reato di costruzione abusiva ha natura permanente per tutto il tempo in cui continua l’attività edilizia illecita, ed il suo momento di cessazione va individuato o nella sospensione di lavori, sia essa volontaria o imposta ex auctoritate, o nella ultimazione dei lavori per il completamento dell’opera o, infine, nella sentenza di primo grado ove i lavori siano proseguiti dopo l’accertamento e sino alla data del giudizio (Sez.U, n.17178 del 27/02/2002, Rv.221399; Sez.3, n.38136 del 25/09/2001, Rv.220351; Sez.3, n.29974 del 06/05/2014, Rv.260498); principio affermato anche con riferimento al reato previsto dall’ art. 181, comma 1, del d.lgs. 22 gennaio 2004 n. 42, qualora la fattispecie sia realizzata, come nella specie, attraverso una condotta che si protragga nel tempo, come nel caso di realizzazione di opere edilizie in zona sottoposta a vincolo, trattandosi di reato che ha natura permanente e che si consuma con l’esaurimento totale dell’attività o con la cessazione della condotta per qualsiasi motivo (Sez. 3, n. 28934 del 26/03/2013, Borsani, Rv. 256897; Sez.3, n. 24690 del 18/02/2015, Rv.263926).
Nella specie, essendo stato escluso che si fosse verificata una volontaria ed effettiva sospensione dei lavori, correttamente il momento consumativo del reato è stato fatto coincidere con la ultimazione dei lavori, accertata in sede di esecuzione del sequestro.
Al momento della pronuncia della sentenza impugnata (15.10.2018), pertanto, non era maturato il termine prescrizionale per i reati di cui agli artt. 44 lett.c) dpr n. 380/2001 e 181 d.lgs 42/2004, termine che maturava solo successivamente, in data 21.11.2018 (i reati si consumavano in data 1.3.2013 ed il termine prescrizionale massimo- quinquennale -, tenuto conto dei periodi di sospensione verificatesi in primo grado pari a complessivi mesi otto e giorni venti, maturava alla data indicata del 21.11.2018) .

3.3. Nondimeno, la seconda censura, con la quale si contesta vizio di motivazione in relazione alla configurabilità del reato di cui all’art. 181 d.lgs 42/2004, non risulta inammissibile e, essendosi validamente instaurato il rapporto processuale, consente di rilevare la prescrizione medio tempore maturata in relazione a tale reato.
Va, sul punto, richiamato il principio di diritto, secondo cui, in caso di ricorso avverso una sentenza di condanna cumulativa, che riguardi più reati unificati dal vincolo della continuazione, l’autonomia dell’azione penale e dei rapporti processuali inerenti ai singoli capi di imputazione impedisce che l’ammissibilità dell’impugnazione per uno dei reati possa determinare l’instaurazione di un valido rapporto processuale anche per i reati in relazione ai quali i motivi dedotti siano inammissibili, con la conseguenza che per tali reati, nei cui confronti si è formato il giudicato parziale, è preclusa la possibilità di rilevare la prescrizione maturata dopo la sentenza di appello (Sez. U, n.690 del 27/05/2016, dep.14/02/2017, Aiello, Rv.268966; Sez.3 n.20899 del 25/01/2017, Rv.270130).
Ebbene, la Corte territoriale, pur a fronte di specifico motivo di appello, non argomentava in ordine ai profili di censura relativi alla configurabilità del reato paesaggistico sollevati dall’appellante, con conseguente vizio di motivazione sul punto della sentenza impugnata.
Pertanto, richiamato il principio di immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità sancito dall’art 129 cod.proc.pen. nel caso di ricorrenza contestuale di una causa estintiva del reato e di un vizio di motivazione, già illustrato al punto 2., la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, nei confronti di Cassiano Cosimo, in relazione al reato di cui all’art. 181 d.lgs 42/204 perchè estinto per intervenuta prescrizione e non emergendo dal testo del provvedimento impugnato elementi che possano giustificare l’applicazione dell’art. 129, comma 2, cod. proc. pen. (cfr Sez.6,n.48461 del 28/11/2013,Rv.258169; Sez.6, n.27944 del 12/06/2008, Rv.240955).

4. In conclusione, la sentenza impugnata va annullata senza rinvio nei confronti di entrambi i ricorrenti quanto al reato di cui agli artt. 48-480 cod.pen. perché il fatto non sussiste, nei confronti di Romano Antonio quanto agli altri reati perché estinti per prescrizione, nei confronti di Cassiano Cosimo limitatamente al reato di cui all’art. 181 d.lgs 42/2004 perché estinto per prescrizione. Il ricorso del Cassiano va, poi, dichiarato inammissibile nel resto con conseguente dichiarazione di irrevocabilità dell’affermazione di responsabilità per il reato di cui all’art. 44 lett. c) d.P.R. n. 380/2001 e rinvio alla Corte di appello di Lecce per la rideterminazione della pena.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di entrambi i ricorrenti quanto al reato di cui agli artt. 48-480 cod.pen. perché il fatto non sussiste e nei confronti di Romano Antonio quanto agli altri reati perché estinti per prescrizione.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Cassiano Cosimo limitatamente al reato di cui all’art. 181 d.lgs 42/2004 perché estinto per prescrizione. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso dichiarando l’irrevocabilità dell’affermazione di responsabilità per il reato di cui all’art. 44 lett. c) dpr n. 380/2001 e rinvia alla Corte di appello di Lecce per la rideterminazione della pena.
Così deciso il 12/11/2019